Lettura della china di ferro Don Chisciotte

 

 

 

Tra le Chine di ferro ideate da Giulio Pellegrini una in particolare colpisce venendo a chiarire ulteriormente questa nuova forma espressiva che affascina immediatamente nel vederla, quanto disorienta allorché la si vuole comprendere e definire. Si tratta del Don Chisciotte di G. Doré (2018), che mi pare possa rappresentare una sintesi dell’operazione di questo artista in un discorso non semplice, ma chiaro e concluso.

 

Il tema è tra i più affascinanti e complessi della nostra storia e della nostra letteratura. Prende le mosse nel tardo Cinquecento, dall’ormai matura Rinascenza, per approdare fino a noi. Un mondo scompare: Medio Evo, cavalleria, nobiltà, amore, avventura, trascendenza; appare qualcosa di nuovo, ma di non ancora ben definito. Comunque dai vaghi lampi che affiorano, il nuovo universo umano appare come fatto di concretezza, materialità, attività di trasformazione, affaristi, danaro, commercio, banche, capitali, opifici. Niente cavalieri, predicatori, santi, profeti, eremiti.

 

I due personaggi a cavallo rappresentano degnamente questi due mondi e ben li incarnano. Il cavallo di Don Chisciotte sovrasta il povero asino di Sancio Panza e la fierezza del cavaliere armato, alto, nobile e longilineo, s’impone sulla goffa figura obesa, scomposta, disorientata, imbambolata dello scudiero. Le cavalcature non sono da meno: curiosamente, per felice forzatura, quella di Don Chisciotte non è più quella spelacchiata, bolsa, traballante che nel romanzo è Ronzinante (prototipo di Aquilante di Brancaleone), ma rispecchia l’animo del cavaliere: è un animale nobile e fiero, ben in zampe, che solleva in alto la testa nitrendo e galoppando, quasi fiero di portare l’Hidalgo.

 

L’asino di Sancio Panza non è proprio malridotto ma, oltre a guardare in basso, si curva quasi fino a terra, con passo più incerto, più greve, mentre colui che gli sta in groppa, trasandato, scomposto, guarda quasi incredulo il suo eroe. Eppure è lui il vincitore storico: è la nuda e cruda realtà borghese della roba e della quantità, per ora goffa e spaesata, che si sta sollevando da terra e lentamente sta sgretolando l’eroico mondo medievale dello spirito, della qualità, del valore, dell’impresa, dell’ideale.

 

Il dialogo tra i due (senza parole) sta nell’espressione sbalordita di Sancio che apostrofa il padrone:

 

- Ma voi, padrone, credete davvero che noi stiamo facendo qualcosa di sensato con queste scorribande? Lo vedete che la cavalleria è finita? Noi malridotti, la spada è un ferro vecchio, l’eroismo d’Orlando può essere finito da una palla di pistola d’un fantaccino, il valore è ormai una chimera, l’amore un passatempo e il cavaliere è un povero spaventapasseri che lotta contro i mulini a vento!

 

È l’eterna istanza della concretezza sull’illusione, della realtà sul sogno, ma Don Chisciotte si limita a guardarlo, tra sdegnato e meravigliato, sorpreso, ma senza dubitare, si erge sul suo destriero dell’ideale che apre le froge al vento, con una mano sul cuore, tiene con l’altra la lancia puntata verso il cielo, come per dire:

 

- No, mai! È lassù che dobbiamo guardare, dove indica la mia lancia! Per l’uomo non c’è altra possibilità che salire, ascendere anche al di sopra di se stessi e mai avvilirsi per realtà meschine, qualunque siano le condizioni, qualunque sia il mondo! Qualunque cosa pensino gli uomini, sempre tenere accesa e alta la fiaccola della vita e della dignità, sollevando il cuore al di sopra dei loro giudizi.

 

E così si solleva sopra la cieca terra, sulla quale le zampe delle cavalcature sembrano volare, sfiorandola appena, senza curarsi se il suo scudiero lo capisce o non lo capisce.

 

È il simbolo d’una crisi storica epocale. Col Rinascimento l’uomo si stacca decisamente dai vecchi valori del passato ed entra in un mondo nuovo che non comprende cosa sia, tranne l’entusiasmo per la libertà, l’ansia di uscire da una tutela di leggi e principi metafisici che si manifestano sempre più pesanti. Non sa che in questa nuova realtà dovrà essere lui a costruire l’impalcatura di nuove leggi e nuovi principi che dovranno regolarlo e limitarlo, altrimenti si condannerà a regredire a una vita animale. Deve nascere un uomo nuovo che sia capace d’esser legge a se stesso, un uomo superiore all’egoismo meschino, non più schiavo delle proprie passioni e della personale avidità, amico del mondo, che attraversa come un viandante la vita, senza essere assetato di avere e di potere, un superuomo come lo intendeva realmente Nietzsche (non il fantoccio che ne è stato tirato fuori), altrimenti il genere umano si distruggerà da se stesso in un rogo atomico di egoismo e di stupidità, costruito con la proprie mani come pare stia succedendo oggi.

 

Ecco dunque l’icona della presente condizione umana. Don Chisciotte dice al meschino pagliaccio insano, mortuario satrapo del mondo, al finanziere capitalista padrone attuale della terra e a quanti lo seguono:

 

- No, non si può vivere senza una dimensione superiore dello spirito, non si può pensare solo in termini di bruta economia. Non si può accettare la dimensione del verme: bisogna salire in alto, dove indica questa lancia. Su, sempre più su, oggi come domani sotto ogni cielo, piovesse anche fuoco!

 

E così vanno ciascuno al proprio destino e la mano di Giulio li accompagna essenzializzando le due sagome fino a renderle cristalline. Con un’operazione finissima rende ora rarefatti, ora concreti i due personaggi, ciascuno nella propria dimensione, mentre dialogano, al di là della loro realtà storica e, senza parlare, intrecciano l’eterno colloquio di due mondi, di cui sono rispettivamente ognuno degni e significativi rappresentanti: la materia e lo spirito, la bellezza e l’utilità, il corpo e la mente, l’ora e l’eterno.

 

Il termine adatto per questo ricamo è trasparenza, per cui ogni essere, ogni figura, ogni gesto adombra, accenna senza prescrivere, né definire il mondo interiore del pensiero e del sentimento: il dato reale, visibile, è il segno nitido dell’idea interiore che a sua volta lo illumina e, da segno quasi impercettibile, lo fa essere e lo muove. Questi esseri sono trasparenti e concreti, sono idee e figure umane: su fondo bianco sono nitidi, definiti, palpabili; nelle loro ombre sono concetti evanescenti, lontani, oggetti sfuggenti del mondo della mente.

 

Giulio ci mette, attraverso le sue figure illuminate contro uno sfondo bianco, deserto, davanti a due realtà: quella della vita concreta e quella del mondo interiore e noi, senza saperne la ragione, entriamo trasognati in questa magia, in questo insieme di forme, luci, ombre, accenni eterei e dure superfici nere, guardiamo pervasi da una corrente vitale. Ma dentro di noi qualcuno afferra nel suo complesso anche il discorso intero e il messaggio che ha trovato, come un’acqua limpida, il corso argentino tra le rocce, sgorgando dalla pietra.

 

È proprio questo che oggi andiamo cercando e qui vi è anche qualcosa di essenziale: l’intuizione, l’ispirazione, o come la si voglia chiamare.

 

Si dirà: è troppo. In questi brevi segni non ci può stare tutto questo e certamente né Doré quando li rappresentò, né Giulio avevano presente davanti agli occhi tutte queste belle considerazioni. Giustissimo: nemmeno Cervantes, quando li creava, conosceva esattamente, né si domandava, cosa rappresentassero il cavaliere e lo scudiero, per allora e per i secoli avvenire. Li creò così perché così li sentiva, perché qualcuno dentro di lui sapeva e gli reggeva la mano che governava la penna. È questo il dono straordinario e mirabile dell’artista. È di questa facoltà rara e misteriosa di cui stiamo parlando, e di cui abbiamo bisogno; altrimenti per scrivere le lettere d’amore ci basterebbe un buon manuale di computisteria.

 

                                                                                                                                     Carlo Lapucci  

               Montepulciano,  15 agosto 2023